Il “Faustino” aiuta Padre Kisito

 

www.piccolofratello.it

 

di Roberto Allegri

Foto di Emanuela Gambazza

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Il mese scorso “Il Faustino” ha presentato la figura di Padre Kizito Sesana. missionario comboniano che si batte coraggiosamente per assicurare un futuro ai bambini di strada in Kenya. Nell’articolo che lo riguardava, abbiamo parlato anche del progetto “Piccolo Fratello” dando il numero verde – che è stato attivo fino al 20 di marzo - al quale spedire un SMS per donare 1 euro all’iniziativa di Padre Kizito.

In seguito, Padre Kizito mi ha scritto pregandomi di porgere i più sinceri ringraziamenti alla redazione de Il Faustino e a tutti i lettori che hanno aderito all’iniziativa.

E’ sempre possibile però aiutare Padre Kizito. Basta visitare il sito www.piccolofratello.it per avere tutte le informazioni. E’ ancora nelle librerie il volume “Quaderno Africano”, una sorta di agenda molto speciale. Ha un nobile scopo, cioè quello di costruire, con il ricavato della vendita, una casa a Nairobi per cinquanta bambini di strada e un Centro di formazione per gli educatori che li dovranno seguire. Ma “Quaderno Africano” è speciale anche perché raccoglie la testimonianza sottoforma di pensieri, racconti e poesie, di oltre cento tra i maggiori esponenti della cultura italiana come Alda Merini, Vincenzo Consolo, Paolo Maunensing, Ennio Morricone, Roberto Vecchioni, Salvatore Veca, Stefano Zecchi, Giuseppe Tornatore, Alessandro Gassman, Carlo Rambaldi eccetera.

E tra tutti questi nomi di “grandi”, sono stato scelto  anch’io. L’onore di far parte di una simile lista è stato naturalmente molto appagante. Il mio raccontino “Preghiera per l’Africa” è stato pubblicato sul libro, proprio accanto alle pagine di Andrea G. Pinketts, il famoso romanziere.

Voglio riportare qui, su “Il Faustino”, quel mio racconto, sperando che chi lo legge senta il desiderio di comperare e far conoscere il libro, sapendo che il ricavato va a favore di Padre Kisito.

 

PREGHIERA PER L’AFRICA

 

Mashaka affonda i piedi nudi nell’erba fresca sulla riva del lago. E l’acqua triste del Tanganika spia i suoi occhi di ossidiana.

Bianca camicia logora che si gonfia con la carezza del vento, il ragazzo tiene un tamburo tra le braccia, grande quasi quanto lui. Cammina fin sotto gli alberi del mango e posa a terra lo strumento. Con la mano sfiora la pelle di mucca, sottile ed elastica, coi piccoli peli che crepitano a passare le dita nel senso contrario. E le stringhe di cuoio dure come sasso che tendono la pelle e circondano il legno sabbioso della cassa. Poi Mashaka afferra due bastoni lisci e nodosi e comincia a battere.

Ecco, il tamburo canta. E chiama a raccolta, uno ad uno, i ricordi di una nazione morente.

E’ antica la voce dello strumento e dice di tempi lontani. Mashaka l’ha appresa dal nonno, quasi prima di imparare a parlare. Ma nel battere di quel ritmo non vi è solo la gloria e le avventure del passato. Ci sono anche le storie della gente come le racconta oggi il destino di una terra dimenticata. Storie che s’alzano insieme alla polvere nell’aria calda, vorticano attorno alle foglie del mango, ondeggiano verso il sole di porpora che si corica dietro l’ultima linea del lago.

Mashaka ha aspettato il tramonto per suonare il tamburo. Vuole cullare il sole mentre prende sonno, vuole salutare il destarsi di luna e stelle e il loro fiorire di luce la volta eterna.

Con lo sguardo di adulta determinazione in un viso da fanciullo, Mashaka desidera affidare al grande lago una preghiera. Vuole donare all’acqua la voce dell’Africa, alle onde della sera porgere il lamento silenzioso di un popolo ferito che non ammette di chinare la testa sconfitto.

Così il ritmo prende inizio, cresce, sale e pare abbracciare le misere case di terra e frasche, la vuota strada che serpeggia verso la foresta, persino la lunga barca del vecchio Muenda, laggiù, che scivola lenta alla pesca notturna e lascia nell’acqua la coda d’argento del suo passare.

Tum-tum-tum. Sono il tamburo e racconto la storia della mia gente. Porto attaccate alle ali invisibili miseria e dolore e povertà.

Tum-tum-tum. Porto con me il fumo della guerra, quello scuro che sale diritto dai villaggi bruciati. Porto i soprusi e le conquiste, e anelli di ferro che cingono i colli. Porto le terre seccate e spaccate dove la pioggia si dimentica di cadere, il vapore dei fiumi scomparsi e le bestie che diventano polvere. E la sete e la fame, fiere dai fianchi sottili, sempre a caccia di prede.

Tum-tum-tum. Sono il tamburo e con me ho lo sguardo di Nala, giovane figlia diventata madre a cui i soldati hanno strappato il piccino. Tutti i giorni la ragazza ne attende il ritorno, seduta immobile lungo il fosso, coi piedi nella polvere rossa come il sangue. Scruta con gli occhi ardenti tra le case di terra e le foglie delle palme che sembrano lame, lungo il sentiero che si perde nel folto. Ma non da quella strada non torna nessuno.

Tum-tum-tum. Canto della piccola Zwala, dagli occhi umidi e scuri come quelli dei cerbiatti. Cerca i genitori scomparsi e ha la fronte corrugata e tesa di chi sta per piangere. Eppure, una maschera dura secca il pozzo delle lacrime e la bambina scuote la testa rifiutando l’inevitabile anche quando esso porta il nome di un male senza cura.

Tum-tum-tum. Dico di Mwaka, abbandonato sotto un albero. Da una settimana il bimbo vaga tra gi spettri di un villaggio morente e contende di che sfamarsi ai cani randagi. E dico di Ndulu e di Kwane, di Nyala e di Hawa e Zawadi, dei bambini col futuro sgretolato, della loro paura e solitudine.

Tutto questo sale dal tamburo di Mashaka. E ogni goccia del Tanganika si colma di quel suono. Il ragazzo sparge al vento la sua preghiera, perché il lago e il mondo che vive oltre la sponda capiscano. E non dimentichino l’Africa.

E suonando Mashaka non piange come faceva il nonno, non cadono lacrime a indurire la pelle del tamburo. Muove le labbra, in una parola silenziosa e potente.

 Matumaini, dice. Matumaini. Speranza, speranza.

L’acqua ascolta e sembra rispondere, e restituisce il riverbero del sole addormentato in miliardi di spilli di luce.