La
Polonia: terra sconosciuta e misteriosa! Qui
Claudio Baglioni, giovanissimo cantautore di diciannove anni, nel 1970
partecipa ad un festival internazionale di musica leggera, nei pressi di
Danzica. In quell’occasione vince il premio della critica e viene
ingaggiato per una serie di concerti, che lo
impegna fino al 1972. In
questa terra lontana, tanto diversa dall’Italia, ebbe modo di conoscere
la gente del luogo, che l’affascinò così tanto da pensare di non voler
tornare in Italia. Infine
a Roma tornò; portando con sé il ricordo dei volti e degli occhi di
quelle “ragazze dell’Est” che tanto lo avevano emozionato, di quelle
storie
“nei mattini pallidi appena imburrati di foschia”, di quelle
vite conquistate giorno dopo giorno, con la durezza del lavoro e con
l’allegria delle donne e dei loro sorrisi. In
alcuni suoi scritti il giovane Baglioni descrive la sua esperienza
polacca, emozionandosi al ricordo di quei giorni, che furono così
importanti per la sua carriera. Era un ragazzo che scriveva musica,
estremamente timido ed ancora disorientato, con tante speranze per il suo
futuro e per la sua ancora acerba carriera. Fu proprio in quel contesto,
così diverso dal suo mondo, che
prese la decisione di voler fare il cantautore, di voler continuare a
scrivere quelle canzoni che gli avrebbero permesso di gridare al mondo
sentimenti, amori, storie di donne e uomini nel lungo e sofferto viaggio
della vita. E
dalle piazze polacche è incominciato il viaggio dell’artista, che ha
imparato a trarre spunti di riflessione dal mondo che gira e vive intorno
a lui, ma anche, soprattutto, da situazioni diverse da quelle a lui più
vicine. “Ragazze
dell’Est” è il
racconto di un mondo, di un popolo con le proprie tradizioni e la propria
storia. È la descrizione di una terra lontana non solo geograficamente,
ma soprattutto diversa socialmente e culturalmente, distante da noi, che
non conoscevamo niente di questo popolo, se non quello che avevamo
studiato, più o meno frettolosamente, sui libri di scuola, al capitolo
“Seconda guerra mondiale”. L’autore
sembra guardare a quelle giornate polacche con gli occhi delle donne del
posto, così serie e rigorose nei loro vestiti consumati, ma dignitose nei
sorrisi di un mattino di una primavera sbiadita. Proprio
le donne polacche lo affascinano nella loro dura semplicità, nel loro
saper andare avanti con un sorriso mesto, nel saper gioire di un timido
raggio di sole dopo un inverno triste e grigio. Con
le loro “vecchie
camicie fantasia”, con i sandali consumati ed i capelli biondi
raccolti nei foulards, con due “occhi
chiari, laghi gemelli, occhi dolci amari”, camminano nelle strade polverose di un paese povero, dritte nel
loro orgoglio, ma con le spalle stanche per il duro lavoro. Camminano
fiere verso le fabbriche, guardando la vita che le trascina ogni giorno.
Cantano felici per quel poco che hanno. Timide portano fiori e scappano
via, tentando di dire qualcosa “in un italiano strano”,
affascinate dai giovani stranieri che entrano nella loro vita. Grandi
anime che sanno portare il dolore con fierezza, giovani donne che ballano
e gridano l’allegria, “eccitate buffe e sudate
per la felicità”. Bevono birra, dimenticando la neve ed il
freddo di sempre, riscaldandosi al suono della musica. E
quelle stesse donne, “nelle sere quando son chiuse le
fabbriche e le vie”, con sorrisi sbiaditi sulle labbra smunte,
aspettano e sperano qualcosa che non sanno, scrivendo sui vetri ghiacciati
i loro desideri e le tante fantasie. Di
loro e del loro mondo si innamorò Claudio Baglioni, che, dopo tanti anni,
canta ancora la vita e la storia delle “ragazze
dell’Est”, con infinita nostalgia per quel mondo lontano che
lo accolse come un figlio, per quegli dolci occhi di ghiaccio che gli
insegnarono a guardare il futuro sognando e sperando. Stefania
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