Marco
Bennici - 17.12.2004
Musica - 23-24-25 settembre 2004 "O
'scia" - Noi dal mare - Claudio Baglioni e il festival di Lampedusa
"Cucaio viene dal mare". Cucaio è Claudio da piccolo ed è in fondo
un po' ognuno di noi. Cucaio è un cucchiaio di terra versato nel mare, in
questo immenso mare della vita, in un punto in cui l'Africa non c'è più e
l'Europa non c'è ancora. Cucaio è un'isola ed è un pensiero ai tanti uomini
persi nel mare, il mare di nessuno e il mare di tutti quelli che se lo
prendono come figlio o come padre. A questo mare i vecchi, le ragazze dell'est
e tutti gli uomini dalle vite stropicciate cantano intorno la solita nenia che
sa di nostalgia e di tempi migliori. Alla voce di Cucaio se ne sono aggiunte
altre. Un festival di voci e di cuori tesi sull'isola di Lampedusa ad
asciugare quello strano senso di indifferenza di cui cadiamo troppo spesso
vittime. Tre giorni sul limite dell'estate. Non importa quali, ma tre giorni.
L'isola è madre di sbarchi drammatici di anime sperse a fuggire una vita che
non c'è. Per tre giorni ha preso colori che mai aveva avuto prima. Ha avuto i
colori delle voci di Baglioni, Barbarossa, Bennato, Fabi, Finardi, Irene
Grandi, Nek, Max Pezzali, Massimo Bubola, Carboni, Raf, Ron, Ruggeri e Mirò,
Mario Venuti, Enrico Brignano, Enzo Iachetti e Pino Insegno. Per tre giorni
questo tragico teatro dell'immigrazione clandestina si è trasformato nel
palco di un festival-laboratorio in cui si è celebrato l'incontro felice tra
popoli, tradizioni, linguaggi e culture. "O 'scia" si è sentito
ripetere nel dialetto isolano. Gli artisti riuniti da Baglioni hanno saputo
cogliere il respiro di quest'isola, un respiro fatto di una voglia di vivere
diversa da quella che ci arriva attraverso le immagini dei tg. Cucaio e i suoi
amici in questi giorni hanno lanciato un sasso sperando che O 'scia possa
trasformarsi in un appuntamento per tutto l'anno, un appuntamento con un
futuro migliore. Lampedusa per tanti cuori disperati, ammassati alla rinfusa
su un gommone, è un salvagente da un equilibrio mondiale che non c'è più, o
che forse non c'è mai stato. E' rifugio dopo le veglie notturne a "ciambellare"
in mare. A questi volti smarriti e spauriti è dedicato questo nuovo sforzo di
Claudio Baglioni. A loro, come ai vecchi, alle ragazze dell'est e agli
spettatori di una vita in cui non si è quasi mai attori, Claudio ha voluto
dedicare almeno una canzone o, perché no, tutte le sue canzoni. Si è alzato
un "naso di falco" a fare qualche domanda un po' più su. Un po' più
su delle banalità dei nostri giorni randagi e del nostro egoistico agire
quotidiano. L'immigrazione clandestina è solo una faccia di un prisma che si
è rotto per terra, qui su questo pezzo di pianeta che consuma quasi tutte le
risorse mondiali. Cucaio per tre sere su quest'isola di sguardi e pensieri
sommersi ha saltato, ballato e duettato. Ha dichiarato apertamente al pubblico
"Io sono qui". Si è avventurato con Irene Grandi in "Strada
facendo". Ha lasciato spazio alla poesia di De Andrè prestando la voce a
"Don Raffaé". Ha scavalcato insieme a Ruggeri questi ultimi sprazzi
di estate cercando "Il mare d'inverno". Mare che quando finisce la
musica si fa sentire impetuoso costringendo i traghetti a rimanere ormeggiati
in porto. Le canzoni non possono cambiare la vita, questo il grande mago
cucaio lo sa bene. Possono però aprire varchi nei cuori degli uomini quando
ci si butta dentro l'anima. E l'anima di Lampedusa adesso sa anche di Claudio
e degli altri artisti che per tre giorni vi hanno trovato un rifugio sicuro
per le loro ansie di speranza.
IL
MESSAGGERO 16 Settembre 2004
TANTE CANZONI PER
DARE SPERANZA AGLI ULTIMI
di CLAUDIO BAGLIONI
OGNI oltraggio è morte. Non sono parole mie. Non ne posseggo di così alte.
Le rubo a un grande Gadda, perché credo che la strada che suggeriscono sia
quella che dobbiamo trovare il coraggio di percorrere, quando ci avviciniamo ad
un tema così doloroso come l'immigrazione clandestina. Un tema di fronte
al quale, prima ancora di essere capaci di parole, dobbiamo essere capaci di
silenzio. Il silenzio che serve a percepire il battito, appena udibile, di
un cuore. Ma non il nostro. Il cuore dell'altro. Finché il radar della nostra
coscienza non sarà capace di rilevare quel battito e riconoscergli la stessa
dignità che chiediamo venga riconosciuta al nostro, le parole che diciamo non
varranno l'aria della quale sono fatte.
Vista dall'aereo, Lampedusa non è che un piccolo neo sulla pelle del mare.
Ondeggia indecisa, come un'imbarcazione che non sa se avvicinarsi o allontanarsi
dalle coste di un'Europa madre sì, ma talvolta anche matrigna.
Non sa se attraversare il "mare nostrum", passare le colonne d'Ercole e tentare
la sorte, tra le acque sconfinate e senza riparo dell'Atlantico. E, forse, se
decidesse di prendere il largo, non avrebbe tutti i torti. Gli sbarchi sono
molto più delle cronache del disagio che portano e di quello che procurano. Più
della contabilità dolorosa - e, qualche volta, vergognosa - di ingressi,
accoglienza, espulsioni. Più di un tornasole con il quale misurare il valore di
questa o quella linea, l'efficacia di questa o quella norma.
Sono nomi, occhi, cuori, carne, ossa. Sono dolore e speranza. L'oltraggio di un
passato incapace di garantire un futuro; la speranza disperata di un presente
che possa restituire il futuro rubato. Sono l'urlo di Munch; lo strazio del
Laocoonte; la vergogna dell'Adamo cacciato dal Paradiso terrestre. Ma,
soprattutto, l'immagine più evidente di una democrazia che si scopre inadeguata
a governare società sempre più vaste e complesse, nelle quali fedi, culture,
storie, tradizioni e linguaggi sembrano incapaci di incontrarsi e capaci solo di
scontrarsi, rischiando - ogni volta - di prendere fuoco ed esplodere. Una
democrazia che corre il rischio di fare harakiri. Se la maggioranza è
fatta da quelli che stanno meglio, tutela i
diritti dei più forti. Il divario con i più deboli aumenta sempre più e le
parole "a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha"
rischiano di assumere un significato apocalittico. Non possiamo fingere di
ignorare che torto, ragione, responsabilità, colpa, legalità, diritto, sono
parole che assumono un significato completamente diverso se pronunciate
nell'inviolabile serenità del nostro salotto o nel buio gelido di una notte
d'alto mare, tra anime calpestate e scheletri di uomini che trattengono il fiato
nella speranza che il loro viaggio sia il primo e non l'ultimo.
Per riflettere su tutto questo, ho chiesto ad altri uomini di musica di scendere
a Lampedusa dal 23 al 25 settembre, per unire le loro note alle mie. Per questo
appuntamento ho preso in prestito il saluto della gente dell'isola -"O scià!":
"fiato mio", "mio respiro"- perché credo non ci sia niente di più forte e
profondo che essere fiato e respiro l'uno per l'altro.
La speranza è che questi "fiati" si fondano in un vento capace di sgombrare
menti e cuori dalle nubi che li avvolgono e aiutare chi lo deve fare a costruire
una prospettiva in grado di garantire un futuro di dignità a quanti vivono a
Lampedusa e la dignità di un futuro a quanti a Lampedusa approdano. Le canzoni -
è vero - non contengono e non possono dare risposte.
Ma la musica è la dimostrazione del fatto che esistono linguaggi e categorie che
non conoscono confini, barriere, muri e pregiudiziali. Ed è a questi universali
che ci dobbiamo affidare se vogliamo davvero chiederci se questo
è un uomo; se vogliamo capire cosa fare per fare in modo che torni ad essere
uomo pienamente e, allo stesso tempo, dimostrare a noi stessi e al mondo che
vogliamo continuare ad essere chiamati uomini anche noi.
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