GENTE –
Settimanale n. 29 13/7/04
Baglioni – Questo piccolo grande architetto
“Da ragazzo avevo lasciato gli studi a metà,
ricominciare a 50 anni è stata
dura, ma alla fine ce l’ho fatta”, dice “Ora
sogno di progettare spettacoli
in piazza”
di Renzo Magosso
Per sostenere l'esame finale, Claudio Baglioni è
andato all'università a
piedi. «Volevo rivivere in qualche modo le
emozioni di quand'ero ragazzo e
non avevo ancora deciso se continuare con la
chitarra al collo o i libri in
mano».
Non ha trovato lo stesso clima: «A quei tempi i
sessantottini, a migliaia,
tiravano sassi, scandivano slogan. E la polizia
li bombardava con i
lacrimogeni a Valle Giulia, la storica sede
romana di Architettura».
Invece la settimana scorsa ha trovato ben altra
ressa sui gradini
dell'università: fotografi, cineoperatori e
tantissimi fan disposti a tutto
pur di avere un autografo. In aula una decina di
accigliati professori.
Pronti ad ascoltare la tesi di laurea del futuro
architetto Claudio
Baglioni, classe 1951, professione cantante.
«Nei primi cinque minuti ho raccontato gli ultimi
vent'anni di carriera
musicale», spiega, «poi ne ho spesi 40 a spiegare
la mia tesi di laurea».
Argomento?
«La riqualificazione urbana della zona del
Gazometro di Roma».
Il Gazometro...
«Ma sì. L'avevo in mente da quand'ero bambino. Ci
passavo davanti con mio
padre, quando si andava al mare, lungo la via
Ostiense .
E allora?
«Io gli domandavo: "Che cos'è quella torre?". E
lui rispondeva: "È un
cilindro magico". Sognavo che da lì venisse fuori
la sorpresa... ».
Una tesi di laurea da un sogno di bambino...
"una realtà, altro che sogno. Quell'area, quasi
12 ettari, può davvero
diventare un nuovo punto d'incontro per la gente.
È un pezzo di storia della
città che può essere riqualificato, restituito
alla vita quotidiana».
Quale storia?
«Quella di migliala di romani che dall'inizio del
Novecento hanno lavorato
lì, per dare luce e gas alla città. Lì
s'incontravano anche la domenica,
mangiavano, ballavano, celebravano cresime e
battesimi. Quante storie,
quanti sudori, quante fatiche. Molti ci hanno
anche lasciato la vita,
intossicati. Adesso questa testimonianza può
diventare nuovo centro di vita,
di aggregazione. Insomma. questo sarebbe il mio
nuovo sogno».
Aggregarsi per cosa?
«Per vivere insieme grandi e piccoli eventi,
teatro, musica, mostre. Per
ricreare atmosfere d'altri tempi, da vecchio
villaggio: quelle che,
purtroppo, mancano in questa società troppo
telematica, virtuale, senza
vibrazioni, senza profumi nè odori. Senza quelle
sensazioni che si provano
soltanto quando si vivono gli uni accanto agli
altri».
Perché un cinquantenne di successo decide di
laurearsi in Architettura?
«Ormai non pensavo più alla laurea. Anche se da
ragazzo avevo fatto quasi
tutti gli esami e l'obiettivo era proprio
diventare architetto».
Chi l'ha convinta?
«Il professor Roberto Palumbo, preside della
facoltà. Un giorno l'ho
incontrato e mi ha domandato di fare una
chiacchierata agli studenti. Gli ho
risposto: "Da me hanno poco da imparare". E lui:
"Prova. Anzi, ti consiglio
di riprendere in mano i libri, dopotutto ti
mancano pochi esami per
iventare architetto"»
E lei l'ha preso sul serio...
«Ci ho provato. Da quel momento, tre anni fa, ho
capito che cosa vuoi dire
fare lo studente lavoratore. Anche se, in un
certo senso, un lavoratore di
lusso. La sera andavo in giro a fare spettacoli.
Di giorno, preparavo gli
esami».
Quali sono stati i più duri?
«Quelli tecnici, per esempio Costruzioni. Agli
esami c'erano gli ingegneri.
Non puoi chiacchierare del più e del meno con gli
ingegneri, vogliono sapere
le formule, la tecnica. A quel punto o le cose le
sai, oppure ti
rispediscono a casa».
Risultato?
«Ho superato anche quegli esami. Ma, su consiglio
del preside, sono andato a
ripetizione da una giovane architetto che ne
sapeva molto più di me. Alla
fine ero preparato per davvero. Ho preso 27. Mica
male per uno studente
cinquantenne, no?».
Come fa un cantante a usare una laurea in
architettura?
«Continuo, nel mio piccolo e senza pretese, a
fare cose che già sto
facendo».
Cioè?
«Da anni curo, per esempio, le scenografìe e l'
"arredo" dei miei concerti.
È stata mia l'idea di mettere il palco al centro
della scena, al Palasport
di Roma e allo stadio. Un palco enorme,
semovente. tecnologico. Pare che
qualcuno, abbia persino apprezzato... ».
Musica e architettura, dunque...
«In un certo senso, sì. Ma non da adesso. Chiedo
sempre, quando sono in
tournée in giro per l'Italia, di potermi esibire
in luoghi storici pieni di
significati culturali, chiese, anfiteatri,
antiche arene, teatri medioevali.
Io vado lì, canto. E il pubblico sta "dentro"
scenari d'altri tempi che
testimoniano chi siamo, da dove veniamo».
Funziona?
«Credo di sì. Sono andato a Bari, al Teatro
Petruzzelli che era ancora un
cantiere, dopo che l'hanno incendiato. La gente
era commossa. Molti mi hanno
ringraziato: "Era l'orgoglio della nostra città",
dicevano, "tu ci stai
aiutando a non farlo dimenticare". Sono cose che
lasciano il segno».
Chi le ha arredato casa?
«Confesso: sono stato io. A volte, uno i danni
preferisce farseli da solo.
Scherzi a parte, non voglio fare l'arredatore. Ma
sarei davvero felice se
qualcuno, tra i professionisti bravi, quelli che
conoscono bene il mestiere,
fosse disposto a tirarmi dentro in qualche
progetto: parlo di iniziative a
metà strada tra il mondo dello spettacolo e la
riqualificazione di aree
urbane. Non posso certo aspirare di diventare un
nuovo Vittorio Gregotti o
Renzo Piano. Quello dell'architetto è solo il mio
piccolo grande amore».
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