Baglioni:
l'uomo della storia accanto di
Pietrangelo Buttafuoco
23\6\2005
Il vate della maglietta fina ha scritto un
libro ambizioso. E ha incontrato il guastatore di Panorama che non
gli ha risparmiato nulla: dalla tintarella totale alle sbandierate
amicizie con De Luca e Sgalambro. Ecco come ha reagito
Un effetto Tutankhamen lo restituisce immacolato ai fan.
Lui è «l'uomo della storia accanto». È vestito di bianco, ha la giacca che
gli fascia lo stomaco con la levità di un bendaggio.
Claudio Baglioni, il ragazzo buonissimo che faceva il pendolare sul bus
tra Prenestino e Tiburtino, a Roma, ha scritto un libro, Senza
musica.
Adesso è un uomo dello spettacolo corazzato dagli artifici della cura e
della cosmesi.
Pare che perfino nei suoi signorili uffici ai Parioli, sul terrazzo,
abbia una piscina dove poter far gruzzolo della tintarella, e chissà
che non sia il sole a cucinargli con la prestanza del fisicaccio anche
quei suoi pensieri.
Il suo fraseggio è stato il più efficace poema pop per i cinquantenni
d'Italia.
Ne ha fatto la felicità di tutta una memoria collettiva con il solo
ingrediente dell'innocenza. «La sentinella della radice musicale»
snocciola con disarmante familiarità «si adegua al giorno del congedo».
È lui che ha scoperto la cosa più semplice: il vero sabato del villaggio,
il luogo leopardiano, è il suo sabato pomeriggio. Per questo lo chiamano a
Recanati per il Premio di poesia.
Laureato davvero, in architettura, non ha avuto alcuna laurea
honoris causa, come invece Vasco Rossi a Milano o Paolo Conte a Macerata.
Sul mancato dottorato di Franco Battiato dice: «Dovrebbero darla a
Manlio Sgalambro la laurea». Baglioni ha preziose malizie: «I senati
accademici hanno l'ansia dello spettacolo, usano il metro della
popolarità, solo che trovano più comodo laureare le canzoni piuttosto che
leggere i libri di Sgalambro».
Tra gli esempi previsti nel suo corso di laurea, Baglioni scelse
scienza della comunicazione. La professoressa non gli fece la domanda a
piacere, bensì una, precisa, su come organizzò il suo concerto
all'Olimpico nel 1998. Lui recitò come un'Ave Maria, spiegò tutto
alla perfezione ma rimediò un mesto 26: «Forse le sembrava esagerato
darmi 30 e lode. Me lo meritavo».
Fortunatamente Baglioni non si prende sul serio.
Si trincera nella «diffidenza dei musicanti leggeri» verso la
mondanità dei mondani «che si conoscono solo tra di loro», verso «il
vippismo dei firmaioli dell'impegno», verso quel «videocitofono»
infine, la televisione: «Chiunque vi si può affacciare».
La cosmesi è cosmesi: «Tutto diventa brutto e triste. Fanno fare le
prove a telecamere spente, i registi fanno sempre finta di avere tutto
sotto controllo.
Ma le luci? Fa bene Renato Zero a strillà: "Ah Nì, nun è che poi
me metti 'e luci che me fanno vecchio d'artri trent'anni?"».
Il suo mondo è lo spettacolo, non è quello del reality: «La gente che
va ai concerti, a teatro, organizza la propria serata, si prepara, cerca
un parcheggio, entra, si accomoda e si sente persona. Assiste all'arte che
non ha riproducibilità tecnica.
Lo spettacolo vale una volta per tutte. Chi se ne sta dimenticato su
una poltrona, invece, davanti a un televisore acceso, è solo un numero,
un tristanzuolo dato Auditel».
Baglioni, che si fa vanto di essere stato inserito nell'antologia degli «irregolari»,
un prezioso libro di LiberalLibri di qualche anno fa, non ha altri
riferimenti che il suo pubblico: la sua è un'Italia trasversale in età,
geografia e gusti.
Avrebbe voluto scrivere lui tutte le belle canzoni italiane degli anni 60;
la più bella in assoluto, dice, è Se telefonando. È una canzone
di Maurizio Costanzo. «A guardarlo» si fa beffardo «nessuno ci
crederebbe, ma anche Cristiano Malgioglio ha fatto belle canzoni».
Claudio Baglioni, che ha consegnato alle librerie un volume, a cura di
Giuseppe Cesaro, edito dalla Bompiani (asSaggi di narrativa, euro
14,00), non si rende conto di avere fabbricato la melodia obbligata della
maglietta fina e, ovviamente, Alè-oh-oh.
Ma forse un po' se ne rende conto: «Anche negli stadi inglesi
adesso cantano Alè-oh-oh». Ancora oggi lui è quello che a 17 anni
si guadagna la lira suonando la chitarra in un disco di Domenico
Modugno. Fa tenerezza la sua sincerità, ammira Franco Migliacci,
oggi presidente della Siae, non tanto per avere scritto Vecchio
frac, ma per aver fatto da paroliere a uno dei brani che fanno da
colonna sonora al mondo intero, il tema della Pantera rosa.
Nessuno conosce il testo perché il celebre «pà-pàpà-pàpàpà-pàààà»
non è mai stato cantato, ma le parole sono regolarmente vincolate al
diritto d'autore e, ogni volta che viene suonato, sono piccioli che
arrivano a Migliacci.
La devozione di Baglioni per le parole senza musica è totale.
Dovette dirglielo Giuseppe Berto che lui l'aveva un privilegio: quello di
«creare nella forma breve e catturare la memoria e il sentimento della
gente».
Erano gli anni in cui il grande scrittore raccoglieva il successo
dell'unico grande libro della letteratura italiana contemporanea, Il male
oscuro, e il ragazzone con i capelli a paralume non credeva di meritare
questa considerazione. Tre minuti di miagolio che danno calduccio, il
tempo di una canzone, dice: «Non fanno la grandezza della parola
asciutta, senza melodie».
Un suo amico è Erri De Luca, Baglioni che ha sempre scritto («con
spaventosa fatica») i testi delle proprie canzoni vorrebbe tentare la
contaminazione alta, ma gli è che proprio De Luca vorrebbe fare al
contrario: riuscire a scrivere al modo di Baglioni, le parole nella forma
breve che restano a galleggiare nei negozi, al bar, negli uffici, dentro
le automobili.
La sensazione del successo la ebbe quando, ancora pendolare tra
Prenestino e Tiburtino, si ritrovò a scrutare le case dal bus.
Fu colto da un brivido al pensiero di qualcuno che in quel momento, nella
soffusa apnea delle finestre, stesse ascoltando le sue canzoni. Perfino
chi non lo sopporta lo conosce per forza.
E adesso tutti cominceranno a leggere le sue parole.
C'è suo padre che gli spiega come raccogliere le briciole del pane coi
polpastrelli, poi c'è lui che sogna di suonare al pianoforte, bendato.
Suona una canzone che non finisce mai.
Non capisce se intorno a lui c'è un pubblico o un plotone d'esecuzione.
Di sicuro è un'esecuzione a vita, spera solo sia una bella esecuzione.
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